Malattie professionali degli insegnanti: supporto psichiatrico insufficiente e inadeguato di Vittorio Lodolo Doria

Anche se non è ancora riconosciuto ufficialmente, le malattie professionali dei docenti che determinano l’inidoneità all’insegnamento presentano una diagnosi psichiatrica nell’80% dei casi.

Gli accertamenti medici, operati dai Collegi Medici di Verifica (CMV) su richiesta del lavoratore o del suo dirigente scolastico, vengono attuati sulla base della documentazione medica, prodotta dall’interessato, purché proveniente esclusivamente da struttura pubblica. Ed è proprio quest’ultimo requisito a generare ulteriori problemi per il docente che presenta un disagio psichico. Infatti il Centro Psico Sociale di zona (CPS) ha lunghe liste di attesa ed è spesso sottodimensionato in termini di personale. Diviene così impossibile far certificare il proprio “burnout” da una struttura pubblica e si corre il rischio che la CMV ti rimandi a scuola col giudizio diidoneità, nonostante la precaria situazione clinica. Se invece la CMV è accorta, richiede una relazione psichiatrica allo stesso CPS che, dopo settimane di attesa, viene costretto a rispondere al Collegio Medico. La testimonianza che andiamo a presentare esprime compiutamente tutte le difficoltà accennate. Prima fra tutte è certamente quella dovuta al mancato riconoscimento ufficiale di malattia professionale degli insegnanti. Ne consegue che i medici, schiacciati dagli stereotipi al pari dell’opinione pubblica, e totalmente ignari delle malattie professionali della scuola, sono all’oscuro del nesso che lega le diagnosi psichiatriche all’ insegnamento.

La lettera

Gentile dottore,

sono docente presso una scuola primaria. Recentemente mi sono recata presso il CPS di zona dove sono stata visitata da una psichiatra. Sono tuttavia rimasta alquanto perplessa in quanto la dottoressa – dopo alcuni lunghi minuti di silenzio senza farmi alcuna domanda – mi ha detto che in quella sede vengono curati pazienti con malattie ben più gravi e serie della mia (come ad esempio la schizofrenia) e che il medico di famiglia avrebbe potuto limitarsi a prescrivermi un farmaco antidepressivo senza mandarmi al CPS.

La visita si è rivelata molto superficiale, per nulla empatica e non ha per niente colto il mio malessere. La dottoressa ha ravvisato in me un forte stress lavorativo e mi ha consigliato di rivolgermi alla Clinica del Lavoro per fare i debiti accertamenti.

Sono stata licenziata con uno scritto da consegnare al mio medico curante che le riporto di seguito:

Egregio collega, ho visitato in data odierna la tua paziente inviatami da te con richiesta di visita specialistica con urgenza. La paziente riferisce somatizzazioni di varia natura da qualche mese in relazione ad un forte stress lavorativo e manifesta inoltre astenia profonda con incapacità a svolgere le normali attività quotidiane ed il lavoro. L’umore è improntato ad irritabilità. Si consiglia alla paziente una terapia farmacologica a base di antidepressivi. Cordiali saluti”.

Sinceramente non mi è parso che sia stata colta la situazione di difficoltà in cui verso. La visita mi è parsa superficiale e, pur avendo sottolineato tutte le mie problematicità riguardanti il malessere a scuola, la dottoressa ha concluso che percepiva la mia esigenza di cambiare lavoro.

Le ho fatto presente nuovamente le mie difficoltà e che probabilmente il mio stato era definito “sindrome del burnout”. Ha sgranato tanto d’ occhi e non mi ha neanche risposto.

Prima di uscire le ho chiesto cosa potevo fare per richiedere un accertamento medico per cambio mansioni temporaneo e mi ha risposto che quella era una cosa che spettava solo e soltanto a lei e che solo lei poteva decidere cosa fare insieme alla CMV che avrebbe valutato la mia situazione.

Mi ha ulteriormente ribadito che in quella struttura venivano curati pazienti gravi, con patologie altamente invalidanti. Le ho risposto che anche la mia avrebbe potuto essere una patologia invalidante, ma niente da fare continuava a sottolinearmi l’inutilità di quella visita.

Sono uscita dallo studio umiliata e frustrata! Ma è mai è possibile che per avere degli accertamenti seri inerenti una professione altamente usurante ci si debba sottoporre a tanta indifferenza e sofferenza?

Cosa dovrei fare per evidenziare il mio profondo malessere? Tornare a scuola e picchiare un bambino?! Tentare il suicido? Possibile che non si possa essere riconosciuti inidonei, magari anche in modo temporaneo, senza dover subire un calvario di questo genere?

Ora sono a casa in malattia e sto assumendo l’antidepressivo insieme a un ipnotico per dormire ma mi sento una larva umana.

Secondo lei, c’è qualche altro centro pubblico a cui mi posso rivolgere più specializzato in depressione da lavoro (dove forse potrei trovare un professionista di sua fiducia)? Cosa mi consiglia di fare? Mi consiglia la Clinica del Lavoro? Come si fa per accedervi?

Mi dia lei un valido consiglio in merito ad un problema così delicato e così diffuso ma tanto inascoltato e oscurato. 

Riflessioni

  1. La prima questione che salta all’occhio è l’incapacità dei servizi pubblici psichiatrici a far fronte alle richieste professionali. Onestamente la dottoressa ammette che al CPS si occupano essenzialmente dei casi gravi, quali le psicosi, mentre non hanno disponibilità e tempo per quelli medio-gravi.
  2. E’ ancora più preoccupante la totale ignoranza degli psichiatri circa la malattia professionale degli insegnanti quale principale causa di psicopatologie. Nella fattispecie la dottoressa rileva il disagio con la sua sintomatologia senza però individuarne la causa. La situazione lavorativa che determina il malessere della docente diviene quasi un pretesto per scaricare il paziente a un altro professionista (medico del lavoro).
  3. Il tentativo di spiegare ulteriormente il proprio malessere alla psichiatra, ricorrendo per giunta al termine “burnout”, ottiene il solo risultato di indispettire la specialista che finisce col riaffermare il proprio ruolo esclusivo e insindacabile di curante. A tal proposito giova ricordare che il termine “burnout” non è contemplato in medicina poiché afferisce esclusivamente alla dimensione psicologica.
  4. La psichiatra ritiene erroneamente che il problema della docente sia risolvibile con una semplice farmacoterapia, a base di ipnotici e antidepressivi, mentre questa può al massimo costituire un aiuto a superare una fase difficile. E’ altresì necessario nel tempo un supporto psicoterapico continuativo per ritrovare forza e motivazione nel proprio lavoro, così come nella vita di relazione.
  5. I risultati cui perviene la collaborazione medico-paziente sono paradossali: incomprensione, rabbia e frustrazione. Un dialogo tra sordi non può che finire così. Molto grande è il lavoro di formazione da attuare tra i docenti e gli stessi medici: in termini di prevenzione per i primi e in termine di causa e cura per i secondi. Tutto passa attraverso il necessario riconoscimento istituzionale delle malattie professionali degli insegnanti che tarda a venire.
  6. Come può dunque procedere un docente, ancora privo di certificazione medica specialistica proveniente da struttura pubblica, che ha richiesto l’accertamento medico in CMV? Conviene recarsi dal proprio medico di base con la richiesta di visita in CMV redatta dalla propria amministrazione per ottenere un’impegnativa urgente per visita psichiatrica recante esplicita richiesta di relazione contenente nell’ordine raccordo anamnestico, diagnosi, terapia e prognosi.
  7. Un certificato/relazione della Medicina del Lavoro della ASL può essere un documento aggiuntivo da esibire in CMV che comunque non sostituisce la relazione psichiatrica di cui al punto precedente. Da notare comunque che la CMV può sempre richiedere un’integrazione specialistica prescrivendo direttamente al docente la visita psichiatrica attraverso un’impegnativa indirizzata al CPS.

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15 Nov 2018 – 7:16 – Vittorio Lodolo D’Oria